Ogni guerra è diversa, ogni guerra distrugge qualcosa in maniera definitiva – vite, beni, risorse, storia, radici –, ma ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace e che la pace è possibile. La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati, “il più drenante” e logorante dei lavori.
È una meccanica lenta con le sue leggi, una meccanica dove la luce non è solo onda o un elettrone solo una particella, dove la ragione è l’incognita più difficile da definire. È una meccanica di “relazioni” che si muove per approssimazioni, esprimenti, tentativi, soggetta a troppe variabili. Una meccanica che si scopre di fallimento in fallimento grazie alla tenacia di uomini e donne, negoziatori tra i grandi o mediatori nel silenzio di un villaggio, ma che non si arrendono a un mondo in cui ci si uccide a vicenda.
Esiste una meccanica della pace e questo è il suo racconto, il racconto di chi è riuscito a negoziare un accordo, a far cessare la violenza anche solo per un breve tratto di tempo o a contribuire alla riconciliazione, di chi ha fatto incrociare i coltelli a due comunità in lotta. Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce. Pace compiuta o parziale, che inizia quando si accoglie l’esistenza dell’altro, il nemico, e dove «nessuno vince tutto e nessuno perde tutto».